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Cinemagraphs

Questo post nasce come riflessione seguita alla pubblicazione su La Repubblica di queste immagini della fotografa di moda newyorkese Jamie Beck che con il grafico Kevin Burg ha chiamato “Cinemagraphs”.
qui il loro blog From me to you.
Il mio primo commento è stato: “sono una grandissima boiata”, espressione scaturita anche per reazione ai commenti, quasi tutti entusiastici, sulla pagina Facebook di Marianna Santoni, fotografa ed esperta di post-produzione – qui potete cercare il suo post.
I successivi commenti mi hanno fatto intuire le ampie possibilità di discorso che possono nascere da questa discussione, toccando nel vivo quello che è lo specifico fotografico. Cosa ne pensate? Chiedo ad Alessandro de Leo di ripostare qui le sue considerazioni.

4 pensieri su “Cinemagraphs”

  1. Eccomi qui, addirittura su invito!
    Premetto che normalmente me ne sarei stato zitto, il motivo per cui mi sono sentito in dovere di commentare il tuo post su Facebook è stata l'unidirezionalità (in negativo) dei commenti apparsi. Quindi è esattamente ciò che è successo a te per il post di Marianna Santoni.
    Ma entriamo nel merito.
    Sono assolutamente d'accordo con chi critica il lavoro di Beck e Burg sul piano contenutistico: a mio parere un contenuto semplicemente non c'è.
    Ma fermiamoci un attimo a riflettere: non è ciò che accade ogni volta che nasce un nuovo medium?
    La prima fotografia di Niepce è una veduta priva di qualsiasi attrattiva; i primi filmati dei fratelli Lumiere mostravano solo gente che camminava o un treno che arriva in stazione. Ciò che veniva mostrato è quindi esclusivamente il mezzo. La cura per il contenuto è arrivata più tardi, spesso anche ad opera di persone differenti dai creatori del mezzo.
    Credo sia esattamente ciò che sta accadendo per i Cinemagraphs: ciò che ci viene mostrato è per il momento solo il mezzo ("Guarda, una foto che si muove!"), ma niente esclude un futuro uso artistico di esso.
    L'ingresso nel mondo dell'arte dei Cinemagraphs non sarebbe tuttavia neanche una gran rivoluzione, dato che abbiamo visto artisti capaci di fare arte con mezzi molto meno malleabili di questo (pensiamo all'orinatoio di Duchamp o ai cavalli di Kounellis).
    Circa la possibilità che i Cinemagraphs danneggino lo specifico fotografico, credo che il problema non si ponga. Il motivo è semplice: non si tratta più di fotografia, è qualcos'altro; ritengo sia più vicino al video (la fotografia è un fotogramma con una propria completezza, il cinema ed il Cinemagraph hanno senso solo con più fotogrammi in sequenza). A sostegno di questa mia idea c'è il fatto che i due autori non si riferiscano a questi lavori come fotografie, tanto da chiamarli con un nome nuovo.
    Concludo con una considerazione sul concetto di "specifico fotografico". A mio parere è assolutamente soggettivo, ogni fotografo pone il confine della fotografia in un punto diverso. Cosa avrebbero detto Weston e Adams circa i tuoi lavori per i Quarta Parete (http://www.francescodenapoli.it/quartap/pagquarta/pagquarta.html)? Probabilmente, essendo presente il fotomontaggio, non avrebbero ritenuto il tuo lavoro una forma accettabile di fotografia; tu invece ritieni legittimamente il fotomontaggio uno degli strumenti del fotografo.
    Dò quindi il benvenuto a questa nuova forma di comunicazione, conscio del fatto che vedremo sia brutti Cinemagraphs che bei Cinemagraphs, come accade per ogni medium.

  2. Il problema non è se i Cinemagraphs siano fotografia o meno, è la loro “promozione” sul terreno del fotografico che stupisce. In un momento come questo in cui la conoscenza della tecnica fotografica si contrae, è fondamentale che almeno l’idea alla sua base sia viva. Invece anche questa procede verso una sua definitiva contrazione. Il cinema, per quanto legato a filo doppio con la fotografia nel suo sviluppo successivo, non è stato una sua immediata derivazione, visto che tutte le apparecchiature del pre-cinema facevano uso di disegni (la lanterna magica di Christiaan Huygens (XV sec.), il fenachistoscopio di Joseph Plateau, lo zootropio e la sua evoluzione, il prassinoscopio di Emile Reynaud). In questo senso c’è stata una naturale convergenza. Ma torniamo a monte. Se chi ha il ruolo di diffondere la fotografia, lo fa in maniera “sensazionalistica” – cito: “Condivido con tutti voi un'idea di un collega newyorkese che spacca davvero. Meravigliosa”, lasciando in superficie il messaggio, solo questo messaggio, non si potrà che avere come risultato, ancora una volta, la deriva a cui stiamo assistendo. Certo, è il ripetersi dell’effetto “specchietto per le allodole” che ha trainato in tempi da record il digitale sul mercato. Torno a ripetere, la critica non è nei confronti di chi li ha fatti e di come li ha chiamati, ma di chi opera in campo fotografico e come li “promuove”. Assicuro, essendo stato ad una presentazione Adobe, che Marianna Santoni è una persona di grandissime capacità comunicative (forse per questo dispiace ancor più), ma nel suo post non c’è una sola risposta alle piccole note dissenzienti (quindi non c’è dialogo), solo tanto “entusiasmo” per chi si mostrava desideroso di apprendere questa “nuova” tecnica. Certo, è il suo lavoro.
    E’ nata una specie di “urgenza” della post produzione, forse a causa di carenza in “produzione”? Ci sono più corsi di post produzione di quanti ce ne fossero di sviluppo e stampa in bianco e nero prima dell’avvento del digitale. Un minimo dovrebbe far riflettere. Non ci sarebbe niente di male se la proposta fosse stata di tipo giocoso/curioso: “vedete cosa è ANCHE possibile fare?”. Ma non è stato così. I cinemagraphs non sono altro che una riedizione più elegante delle gif animate, alla base della prima sensazione di movimento percepita sul web. Che qui si faccia su di una fotografia e nello specifico su parte di essa non cambia la sostanza dei fatti. Ed è anche rischioso il ritorno circolare delle cose, permesso solo dall’ignorare quello che è già stato e che riesce nell’intento di vendere e rivendere ciclicamente lo stesso articolo come nuovo. Poi con tutta probabilità la cosa cadrà nel nulla.

  3. Per quanto mi riguarda, mi sono concesso il “lusso” o il divertimento del fotomontaggio solo dopo 16 anni di camera oscura e per giunta era il 1999 (si parlava ancora pochissimo di digitale). Il rischio è che le persone approdino ai cinemagraphs senza ancora saper nemmeno fotografare. Io li ho fatti pensando che la fotografia può essere ANCHE quello. Gustav Le Gray e le sue stampe combinate, Oscar G. Rejlander con “Le due strade della vita” o “Tempi difficili”, Enry Peach Robinson e altri, sono le avanguardie della possibilità di intendere diversamente la fotografia, diversamente dal suo essere “indice”, ma sono autori dalle basi tecniche indiscutibili. Weston ed Adams avevano questo alle loro spalle. Questo hanno accolto o si sono scrollati di dosso. Ma sono tutti autori con una fortissima coscienza fotografica.
    Credo che sia importante porsi questo tipo di domande, giusto per maturare una propria, personale, coscienza del mezzo. Poi è bene che ciascuno viva l’immagine fotografica a proprio modo, anche superficialmente, ci mancherebbe (non vorrei che questa risposta possa essere presa in nessun come il tentativo di difendere concetti “alti” di fotografia). Il problema è oramai la totale mancanza di contraddittorio, di proposta “altra”, cioè di qualcuno che ricordi che la fotografia è (è stata?) ANCHE altro. Concludo (tristemente?) citando Walter Benjamin da “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (Enaudi): “In breve tutto sembra dimostrare che aveva ragione Bernhard von Brentano quando affacciava l’ipotesi “che un fotografo del 1850 fosse veramente all’altezza del suo strumento”.”

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